Brevi note sul pensiero di Piero Calamandrei

da | Set 14, 2019 | Legalità attiva. Pensiero e azione | 0 commenti

tratto da

Legalità attiva. Pensiero e azione | Capitolo 2

Brevi note sul pensiero di Piero Calamandrei.

Un viaggio a tappe all’interno del concetto di legalità in compagnia del pensiero di studiosi e filosofi di ogni tempo e con uno sguardo attento e critico rivolto all’attualità, per comprendere il valore della legalità e farsene portavoce. In alcun tappe, a cominciare dalla prima, privilegeremo la riflessione astratta, in altre verificheremo, con casi pratici e di attualità, in che misura e fino a che punto possiamo dire di vivere in un sistema che faccia della legalità un suo valore fondativo e condiviso.

Il senso della legalità è la coscienza morale della necessità di obbedire alle leggi, qualunque esse siano, perché esse sono un impegno reciproco preso coi propri cittadini di rispettarle anche se ingiuste

Piero Calamandrei, 1944

Libertà, legalità e certezza del diritto

Nel Pamphlet “Non c’è libertà senza legalità”¹ , Piero Calamandrei (1889-1956), uno dei più grandi giurisiti italiani del XX secolo e padre costituente, esplora il rapporto tra libertà e legalità.

Si legge nelle sue prime pagine: “La legalità è condizione di libertà, perché solo la legalità assicura, nel modo meno imperfetto possibile, quella certezza del diritto senza la quale praticamente non può sussistere libertà politica.

Certezza del diritto, cioè certezza dei limiti entro i quali si estende la libertà di ciascuno e al di là dei quali comincia la libertà dell’altro; certezza del diritto, ossia possibilità pratica per ciascuno di conoscere, prima di agire, quali sono le azioni lecite e quelle vietate, cioè quali sono le azioni che egli può compiere per esercitare la libertà senza violare insieme la libertà altrui”.

Calamandrei quindi stabilisce con chiarezza il rapporto fra tre concetti fondamentali nella riflessione più generale sul tema della legalità: il concetto di libertà, quello di legalità e quello di certezza del diritto.

La legalità – ci insegna Calamandrei – è un sistema che, definendo a priori le regole contenenti obblighi e divieti, consente di definire il perimetro delle libertà individuali di ognuno. Il sistema della legalità, dunque, ha la finalità di dare certezza ai comportamenti liberamente attuabili dall’individuo all’interno della società, una certezza che, in quanto fondata su regole comuni e condivise, si definisce “certezza del diritto”.

Tali regole prendono il nome di leggi: “…comandi non individuali e concreti, dettati per una situazione già in atto, ma comandi ipotetici e generali, destinati a valere nel futuro per tutta una serie indefinita, descritta in astratto nei suoi caratteri tipici, di casi futuri previsti come possibili: in modo che solo il verificarsi in concreto di un caso avente questi caratteri farà scattare – rendendolo attuale e indirizzato individualmente proprio a quel caso – il comando potenzialmente incluso e tenuto in serbo nella legge”.

I due sistemi possibili di tutela delle libertà individuali

Calamandrei ci ricorda poi che il sistema delle libertà individuali all’interno di una società può essere strutturato secondo due diverse modalità: quello della “formulazione giudiziaria” e quello della “formulazione legislativa”.

Nella prima modalità “ … il diritto nasce soltanto in forma di sentenza giudiziaria che vale per il caso singolo: l’organo produttore del diritto è il giudice: funzione giurisdizionale e funzione giuridica si identificano. E poiché al momento del giudizio non esistono leggi prestabilite alle quali il caso possa essere ragguagliato, il giudizio del caso singolo non si può dire un giudizio giuridico (secundum ius), ma è piuttosto un giudizio politico che trasforma direttamente il fatto in diritto, in base a criteri di opportunità contingente con cui si cerca di raggiungere di volta in volta l’equilibrio dei vari interessi in contrasto”.

Nella seconda formulazione, invece, la funzione giuridica si articola in due distinti momenti: quello della formazione delle leggi e quello, successivo, della loro applicazione. In questo secondo sistema, la sentenza del giudice non è più resa in base a considerazioni di opportunità contingente, ma in ossequio alla rigida e inesorabile necessità di far valere la legge com’è stata posta dal legislatore. “Si intende così, in questo sistema, la contrapposizione tra giustizia e politica. Giustizia vuol dire soltanto conformità alla legge; il giudice non ha altro modo di essere giusto che quello di conformare la sua sentenza alla volontà della legge: dura lex sed lex”.

Questo secondo sistema assegna un evidente primato alla politica: “Ogni attività politica – sostiene Calamandrei – anche la più estremista e sovvertitrice, mira a creare un ordine nuovo e consacrato in nuove leggi: la politica è la dinamica di cui il diritto è la stasi e l’acquetamento … E il giudice nel fare giustizia nulla deve sapere di queste lunghe operazioni chimiche svoltesi prima che egli cominci a lavorare, e deve usare senza passione e senza preferenze questo prodotto finale di una elaborazione in cui egli non ha competenza”.

In sostanza, secondo Calamandrei, “Nel sistema della legalità, la giustizia in senso giuridico è la conformità alla legge”.

Legalità e giustizia

Il problema, che Calamandrei certo non si nasconde, è che le stessi leggi possono essere o, quanto meno essere avvertite, come ingiuste. Per cui può accadere ciò che il lapidario motto latino “summum ius, summa iniuria”, ben sintetizza: una sentenza ineccepibile che tuttavia applichi una legge ingiusta, finisce, per proprietà transitiva, per essere a sua volta fonte di ingiustizia.

Tuttavia, osserva l’insigne giurista: “La qualificazione di ingiustizia data a una legge importa … non un giudizio giuridico, ma morale”.

Al giudice, in ogni caso, non spetta di correggere secondo il proprio sentimento di giustizia, ciò che nella legge possa apparire ingiusto sotto il profilo morale: “Tener conto dei motivi morali che sono tra le molte forze motrici della politica, spetta al legislatore, non al giudice: nel sistema della legalità rimangono sacrificate soltanto le ragioni della giustizia morale del caso singolo, quella giustizia del caso singolo che meglio si dice equità; ma quel sacrificio è largamente compensato da quella purezza con cui la giustizia entra nel diritto quando vi è introdotta per classi, attraverso considerazioni generali che permettono di utilizzare e formulare nel diritto positivo un minimo etico, una morale sociale media”.

Legalità e Stato

In un passaggio particolarmente importante del suo scritto, Calamandrei annota poi che

“…non solo le relazioni tra i cittadini, ma anche quelle tra i cittadini e l’autorità debbono essere regolate in base a leggi prestabilite, in modo che ciascuno sia in grado di conoscere in anticipo fin dove arrivano i suoi diritti e dove cominciano i suoi doveri … Nello Stato di diritto anche la libertà dell’autorità è limitata dalla legge, in modo da non varcare i confini della libertà individuale dei cittadini”.

Considerazioni a margine

Colpisce in particolare, nella lettura del breve saggio di Calamandrei, la lucidità e la chiarezza con le quali l’insigne giurista affronta ed analizza temi tanto complessi, mettendone sempre a fuoco, con mirabile puntualità, il nucleo essenziale.

Certo, taluni degli snodi concettuali in cui si articola il suo pensiero non possono dirsi compiutamente risolti nello scritto che, sicuramente, non era nelle intenzioni dello stesso Calamandrei far assurgere a trattazione esaustiva di una materia tanto vasta e profonda. Ma il grande pregio dello scritto è proprio nella capacità, quasi fotografica, di identificare i capisaldi di qualunque ragionamento si intenda costruire attorno al tema della legalità.

Così, anzitutto la distinzione tra le società che affidano la tutela delle libertà individuali ad un sistema fondato sullo ius dicere giudiziario e quelle che la affidano ad un sistema basato sulla legge, in cui dunque la funzione giudiziaria entra in scena solo in un secondo momento ed è totalmente vincolata al dettato della legge.

Qui, come in altri dei temi affrontati, Calamandrei non tenta di approfondire le conseguenze del principio enunciato e non si avventura perciò nell’esplorazione delle modalità con cui il giudice è comunque tenuto ad applicare la legge, i limiti che egli incontra nella sua interpretazione.

Gli basta in questa sede affermare – in un modo che per certi versi può definirsi lapidario – la soggezione assoluta del giudice alla legge, anche ove questa possa essere percepita come “ingiusta”.
Sarebbe tuttavia limitativo, e non renderebbe giustizia al pensiero dell’Autore, ritenere che egli accetti supinamente la possibilità che il giudice non abbia facoltà alcuna di intendere la legge.

In un’appassionata arringa tenuta nel 1956² egli infatti afferma: “… la funzione dei giudici, meglio che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità promessa dalla Costituzione”. In quel discorso, Calamandrei sostiene che le leggi devono essere vivificate:

“… le leggi son vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro tempo, lasciarvi entrare l’aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il nostro sangue e il nostro pianto. Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, spregevoli giuochi da legulei; affinché diventino sante, vanno riempite colla nostra volontà. Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute … La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunciatrici del futuro: «pari dignità sociale»; «rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana»; «Repubblica fondata sul lavoro»; «diritto al lavoro»; «condizioni che rendano effettivo questo diritto»; assicurare a ogni lavoratore e alla sua famiglia «un’esistenza libera e dignitosa»… Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più ritirare”.

Per Calamandrei, dunque, è nella Costituzione che deve rinvenirsi il potere delle leggi, la loro linfa vitale: è la Costituzione che costituisce al tempo stesso il perimetro entro il quale le leggi devono muoversi e la sorgente della loro forza.

Se dunque il tema della giustizia appartiene al dominio della morale e, come tale, è da collocarsi fuori ed a monte del perimetro del ragionamento giuridico in senso stretto; se esso compete perciò alla politica, il cui compito è determinare un quadro di valori di riferimento cui sarà ispirata l’azione del legislatore nel comporre il disegno ordinamentale complessivo, le leggi devono comunque obbedire ai vincoli loro imposti dai principi fondativi della società, enunciati nella Costituzione.

Certo, Calamandrei pensa ed agisce, come egli stesso non manca di sottolineare, in un tempo di grande trasformazione, un tempo che eredita una legislazione lascito di un periodo storico da cui urge prendere le distanze. Ed ecco dunque che, non potendosi smantellare immediatamente l’intero ordinamento e riedificarlo istantaneamente ab ovo, è necessario che i precetti in esso contenuti siano “riletti” alla luce dei nuovi dettami costituzionali. Ai giudici, Calamandrei sembra affidare il delicato compito di applicare le leggi esistenti in conformità ai principi della Costituzione, ferma rimanendo la necessità che le nuove leggi, sostituendosi a quelle precedenti, siano ad essi totalmente conformi.

Non vi è dunque contraddizione tra l’idea espressa nello scritto del 1944 secondo cui il giudice deve applicare la legge anche quando gli appaia “ingiusta” e quella che affiora nell’arringa di dodici anni dopo, quando Calamandrei chiede espressamente ai giudici di applicare la legge in conformità allo spirito del nuovo tempo.

Nella visione di Calamandrei, l’inevitabile frizione tra la nuova Costituzione e il vecchio apparato legislativo è destinata ad essere risolta con la progressiva mutazione del quadro normativo (mutazione mai del tutto compiuta).

Solo allora, al giudice null’altro sarà chiesto se non di conformare i propri pronunciamenti alla lettera della legge.

¹ Si tratta di 75 pagine manoscritte databili 1944, pubblicate di recente nella collana Economica Laterza Bari

² Arringa tenuta il 30 marzo 1956 di fronte al Tribunale penale di Palermo nel caso Danilo Dolci, pubblicata nel volume “Lo Stato siamo noi”, Chiarelettere 2011.

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

ARGOMENTI

UNISCITI A SOS DIFESA LEGALITÀ

NEWSLETTER

SEGUICI SUI SOCIAL

ARCHIVI

Share This